Qui desidero offrire una breve riflessione introduttiva sul tema della non-dualità, alla quale tornerò in seguito, approfondendola anche attraverso il riferimento a opere in sanscrito e ad autori che si sono confrontati in modo significativo con questa prospettiva.
Rispetto al concetto molto discusso della non-dualità, emerge con chiarezza il contrasto tra le due visioni spirituali: da un lato, la via cristiana della relazione; dall’altro, la via orientale dell’identificazione con l’Assoluto impersonale.
Si tratta di due vie spirituali profondamente diverse, che nascono da contesti culturali, religiosi e antropologici distinti. La mistica cristiana e quella indiana non sono facilmente paragonabili, né possono essere estrapolate dal loro contesto originario senza il rischio di fraintendimenti. Ciascuna via esprime una concezione dell’assoluto, del divino e dell’umano che risponde a visioni del mondo differenti: la prima è centrata sulla relazione personale con Dio, l’altra sulla dissoluzione del sé nell’Assoluto impersonale. Ogni tentativo di metterle in parallelo deve dunque tener conto di queste radici profonde e irriducibili.
Nel Vedānta, uno dei principali sistemi di mistica e filosofia indiana, la realtà ultima è Brahman, principio impersonale e assoluto. La liberazione, il risveglio avviene attraverso un processo di risveglio interiore, esclusivamente individuale. Non c’è relazione d’amore, di luce, Grazia dello Spirito. Non c’è un Dio che chiama, che si dona. La liberazione (mokṣa) è il dissolversi dell’io nella coscienza universale. Processo autoreferenziale. L’amore, in questa prospettiva, non è la natura di Brahman, ma un aspetto relativo, fenomenico, che appartiene al mondo della dualità.
Nel cristianesimo, invece, la verità ultima è un Dio personale che ama, che chiama per nome, che entra nella storia, che si fa carne. L’Incarnazione di Cristo è il segno più scandaloso e luminoso di questa visione: il divino entra nell’umano non per annullarlo, ma per portarlo a compimento. L’amore non è solo la via, ma anche la sostanza della meta. Per questo la grazia è indispensabile: perché la salvezza non è frutto di sola realizzazione, ma di relazione, dono, appartenenza.
Il Dio personale e il mistero che travalica. Certo, anche nel cristianesimo il volto di Dio resta misterioso. L’ebraismo, radice della fede cristiana, è profondamente iconoclasta. Nessuna immagine può rappresentare Dio. Gli antropomorfismi biblici sono solo tentativi di dire l’indicibile, metafore per esprimere un incontro. Ma è con Gesù che questo mistero si fa volto. È Lui a chiamare Dio “Padre”, a renderne possibile la relazione. A renderci Figli di Dio, a risvegliare in noi la memoria di questa appartenenza. Siamo figli dell’amore. E la sua umanità è la via per la nostra divinizzazione.
È questo, forse, il paradosso più grande e anche la novità più radicale del Cristianesimo: il divino che entra nell’umano, l’invisibile nel visibile, l’infinito nel finito, l’eterno nel tempo. Assunzione piena e trasformante della carne, della storia, della relazione. Nel cuore dell’esperienza cristiana c’è la trasfigurazione del sé in Cristo. È Dio che si fa uomo.
Nelle filosofie indiane, in particolare nel Vedānta, la tensione è rivolta alla trascendenza, all’uscita dall’umano per raggiungere l’Assoluto impersonale.
Nel cristianesimo, invece, la salvezza passa per l’incarnazione. È Dio che si abbassa, che assume il volto dell’uomo, che entra nel tempo. E questo fa tutta la differenza: la materia non è da fuggire, ma da redimere per incarnare l’amore; la relazione non è illusione, ma via di salvezza; l’amore non è un ostacolo, ma il cuore stesso di Dio.
Nel cristianesimo, è proprio la relazione d’amore a operare la salvezza. È la luce dello Spirito che penetra l’anima e la trasforma. È la Grazia che precede ogni sforzo umano, che chiama e attende, che plasma nel silenzio e nella libertà. E tutto questo si realizza nella concretezza della relazione.