Lessico di “peccato” e la metafora del velo

Antonella spesso sottolinea come, nelle Scritture, l’idea di peccato non avesse una connotazione morale, ma fosse piuttosto legata a un concetto di distanza o separazione da Dio. La connotazione morale che oggi associamo al peccato si è sviluppata successivamente, nel corso del tempo, attraverso l’elaborazione teologica e culturale. Questo sviluppo storico ha trasformato il significato originario, portando a una comprensione più normativa e moralistica, distante dalla prospettiva iniziale più esistenziale e spirituale. Antonella invita a riflettere su queste trasformazioni, riscoprendo il senso profondo del peccato come una condizione dell’essere umano che richiede riconciliazione e ritorno a Dio, piuttosto che una semplice infrazione morale.

A p. 2 di Memoria profonda e risveglio, Antonella afferma “Peccato ha un valore essenziale nella Bibbia, non morale” ed evidenzia che in ebraico antico la parola che denota “peccato” è chatta’t, che  deriva dalla radice חטא, appartenente all’area semantica del lessico di caccia e di guerra con il significato di “fallire il bersaglio”. Questo termine originariamente descriveva l’atto di sbagliare mira con la conseguenza di non colpire il nemico in battaglia, mettendo così in pericolo la propria vita. Nel contesto biblico, questa immagine di fallimento del bersaglio viene applicata all’ambito spirituale. Attenendoci alla semantica del verbo, commettere un peccato equivale a deviare dal cammino e non centrare il proposito di Dio per la propria vita, quindi mettere in pericolo la propria vita (spirituale). Non si tratta di una trasgressione giuridica o di una violazione di una regola, ma di uno scostamento rispetto al fine ultimo: vivere secondo l’ordine divino. L’idea di peccato come deviazione, fallimento di un obiettivo suggerisce che il “peccato” è una rottura di relazione con Dio e con il prossimo. Il peccato è visto come qualcosa che allontana dalla piena realizzazione dell’ essere umano all’interno del disegno divino.

Passiamo adesso alla lingua greca, quindi al Vangelo di Giovanni in greco. Il termine greco utilizzato nel Vangelo di Giovanni per peccato è ἁμαρτάνω (amartanō), che letteralmente significa “sbagliare, deviare”, dunque una semantica simile alla controparte ebraica. In Giovanni, ἁμαρτάνω, e i termini correlati come ἁμαρτία (amartia), assumono un significato teologico più profondo. Il peccato, ἁμαρτία, è una condizione di separazione da Dio, deviazione, errore che crea separazione, un allontanamento dalla verità, ma che non nega l’opportunità di correzione e redenzione.

Nel Vangelo di Giovanni, questa frattura è attribuita all’inganno generato dall’io psichico, sia individuale che collettivo, e all’oscurità e falsità insite nelle dinamiche distorte e corrotte del mondo, in opposizione all’ordine armonico della creazione divina. Nei suoi scritti, Antonella analizza frequentemente il concetto di “inganno” nel Vangelo di Giovanni, collegandolo alle dinamiche egoistiche e utilitaristiche del mondo, in netta opposizione all’ordine della creazione divina. L’illusione dell’ego, sia individuale che collettivo, di possedere il controllo e di essere autonomo si rivela una delle radici profonde di questa separazione. Nel Vangelo di Giovanni, l’”inganno” generato dalle dinamiche umane del “mondo” viene evocato attraverso una ricca varietà di termini e immagini, che illustrano il contrasto profondo tra la luce della verità divina e l’oscurità delle false certezze e illusioni terrene.

Il termine più frequentemente utilizzato da Giovanni per menzogna, falsità è Ψεῦδος (pseudos), spesso messo in contrapposizione alla verità: ἀλήθεια (aletheia) – ‘verità’, che è opposta all’inganno e alla menzogna.

Giovanni 8, 32:

καὶ γνώσεσθε τὴν ἀλήθειαν, καὶ ἡ ἀλήθεια ἐλευθερώσει ὑμᾶς

‘Conoscerete la verità (ἀλήθεια), e la verità vi farà liberi’

In questo passaggio, la verità è vista come liberatrice, quindi in netto contrasto con la schiavitù della menzogna e dell’inganno del mondo e delle dinamiche dell’ego. Vorrei soffermarmi un momento sul verbo γινώσκω (ginōskō), ‘conoscere’, come ci spiega Antonella, non indica solo una conoscenza intellettuale, ma un’esperienza profonda e trasformativa. ‘Si conosce Dio incarnandolo’, dice Antonella. In Giovanni, il conoscere implica una relazione personale con Dio, vedi Giovanni 17, 3:

αὕτη δέ ἐστιν ἡ αἰώνιος ζωή, ἵνα γινώσκωσιν σὲ τὸν μόνον ἀληθινὸν θεὸν

‘Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio’

Nel pensiero ebraico, conoscere la verità non è solo un atto intellettuale ma un coinvolgimento esistenziale che porta alla trasformazione. Conoscenza che trasforma. Dunque verità rivelata e liberazione spirituale, cambiamento interiore: solo attraverso la verità che è in Cristo si può essere veramente liberi.

Altro spunto di riflessione viene dal verbo ἐλευθερόω (eleutheroō), ‘liberare, rendere liberi, affrancare’. Questo verbo indica la liberazione da una condizione di schiavitù od oppressione.  Dunque libertà spirituale: libertà dal peccato, vedi Giovanni 8:34: ‘Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato’, concetto chiave anche nelle lettere di Paolo (Galati 5:1: ‘Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi’).

Antonella enfatizza che la verità è l’amore, un amore che libera, amore liberante. La salvezza è l’amore salvifico, una forza trasformativa capace di guarire e sanare. L’amore è punto di partenza e punto di arrivo.

Il futuro dei verbi in ‘conoscerete’ (γνώσεσθε) e vi ‘farà liberi’ (ἐλευθερώσει)  qui non indica un evento che avverrà in un tempo lontano, ma una conseguenza naturale e certa di un’azione presente. La conoscenza della verità (γνώσεσθε τὴν ἀλήθειαν) non è un atto immediato, ma un processo graduale di trasformazione, fioritura, che porta a un risultato futuro: la libertà spirituale (ἡ ἀλήθεια ἐλευθερώσει ὑμᾶς). È un po’ come dire: ‘Se iniziate a conoscere la verità, inevitabilmente sarete liberati’, quindi l’enfasi è sulla certezza del risultato.

Quindi la scelta di Giovanni per il tempo futuro dei verbi si deve leggere in quest’ottica, come un’azione in corso con effetti futuri: Gesù sta dicendo che nel momento in cui si inizia a seguire la sua Parola (Giovanni 8,31), la conoscenza della verità crescerà nel tempo, portando alla libertà. La salvezza è un processo di trasformazione  e liberazione.

Giovanni 14,17: ‘Lo Spirito della verità (τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας) che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce’.

Non lo riceve: non lo riceve perché non lo vede, quindi ricevere lo Spirito della verità implica vederlo e conoscerlo, come? Aprendosi, lasciandosi attraversare, facendosi raggiungere, facendone esperienza, incarnandolo, come insegna Antonella.

Non lo vede e non lo conosce: non lo vede e siccome non lo vede non lo conosce (i.e., non ne fa esperienza, anche qui il verbo è ginōskō). Muovendoci all’interno del pensiero di Antonella, chiediamoci cosa vuol dire quel non lo vede? Non lo vede perché c’ è un velo, quindi si tratta di un’incapacità, una barriera oscura la visione, ‘un muro che separa’ per usare un’espressione di Antonella quando parla di spazio-tempo e vita eterna, come soglie che richiedono un cambiamento di prospettiva.

Per Giovanni, l’inganno del mondo è una condizione spirituale che si manifesta nell’incapacità di riconoscere la luce e l’amore di Cristo e di aderire alla verità divina.

Giovanni 14,6 Ἐγώ εἰμι ἡ ὁδός καὶ ἡ ἀλήθεια καὶ ἡ ζωή

 ‘Io sono la via (ὁδός), la verità (ἀλήθεια) e la vita (ζωή)’.

Ἐγώ εἰμι (“Io sono”) è una formula fondamentale nel Vangelo di Giovanni, che richiama il nome di Dio rivelato nell’Antico Testamento: ‘Io sono colui che sono’ (Esodo 3,14). L’articolo determinativo ἡ, presente in Giovanni 14,6 Ἐγώ εἰμι ἡ ὁδός καὶ ἡ ἀλήθεια καὶ ἡ ζωή), sottolinea che Gesù non è una via, verità e vita, ma la via, verità e vita. In questo sito ho riportato i passi del Vangelo di Giovanni in cui ‘Io sono’ appare sia con un predicativo (es. ‘Io sono il pane della vita’) sia in forma assoluta (es. ‘Io sono’)

Antonella invita spesso a porre l’attenzione alle dinamiche interiori di resistenza, rifiuto, rimozione e inconsapevolezza del “retroscena”, che si manifestano come una forma di cecità spirituale. Il percorso di trasformazione interiore passa attraverso la rimozione di questo ‘velo’, un processo che richiede apertura, umiltà e coraggio. Questo velo ci separa da Dio e dalla nostra vera natura, rappresentando una condizione di oblio. Antonella utilizza il termine ‘velo’ nel suo libro Dio è Madre, p. 82.

Nel Nuovo Testamento, il termine per ‘velo’ si trova ad esempio in 2 Corinzi 3,16: ‘Quando qualcuno si volge al Signore, il velo viene rimosso‘, Paolo utilizza il sostantivo κάλυμμα per velo. E in Matteo 27,51 e Luca 23,45 il ‘velo’ (καταπέτασμα) del tempo che si squarciò in due viene rappresentato dal temine katapetasma.

Nel Vangelo di Giovanni, il termine greco per ‘tenebra, oscurità’ è σκοτία (skotía), derivato dalla radice indoeuropea skeu– che significa “coprire”, da cui anche l’italiano “oscuro”. Nel Vangelo di Giovanni, la cecità spirituale è espressa attraverso contrapposizioni simboliche come luce e tenebre, verità e menzogna. Essa non rappresenta soltanto l’incapacità di riconoscere Cristo come portatore della verità divina, ma anche una chiusura interiore che impedisce l’accesso alla dimensione trascendente e al senso più profondo della vita.

Antonella spiega che quando l’umanità accoglie pienamente la divinità, si trasfigura, si libera dalle catene dell’inganno e dalla cecità, che è morte spirituale. L’immagine del velo è una potente metafora dell’ignoranza, della separazione da Dio e della mancanza di comprensione spirituale. Esso rappresenta una barriera che l’uomo stesso crea, un oblio che oscura la memoria della nostra vera appartenenza al grembo materno divino, la sorgente da cui proveniamo. Il velo simboleggia la prospettiva ingannevole, l’illusione del mondo. Si tratta allora di frantumare il muro che separa, affinché si possa riconoscere la verità e vivere nella luce della rivelazione divina. In questo senso, il percorso spirituale diventa un atto di svelamento, di rimozione progressiva di strati di illusioni che ci separano dalla nostra vera essenza.

La cecità spirituale è una condizione in cui l’individuo rimane intrappolato nelle illusioni dell’ego, nell’attaccamento, nella superficialità e nelle distrazioni materiali. Si tratta di una metafora ricorrente in molte tradizioni religiose e filosofiche, spesso descritta come un’oscurità interiore che impedisce di vedere con gli “occhi del cuore” o dello spirito.

La cecità spirituale è chiusura, morte spirituale. Allora qui mi vien ein mente la spiegazione che Antonella offre di infero, come luogo chiuso confinato, e di “angoscia”, dal verbo latino angere, “soffocare”, da cui angustus ovvero “stretto”.

Trovo particolarmente potente la metafora del velo, poiché essa è ampiamente utilizzata anche nelle filosofie orientali, sebbene in un contesto molto diverso, e per descrivere l’illusione che oscura la visione della realtà ultima. La bellezza di questa metafora risiede nella sua universalità e nel fatto che il velo non è definitivo, ma può essere sollevato attraverso il lavoro interiore di consapevolezza e l’esperienza diretta. La metafora del velo e dello svelamento evoca profondamente il concetto di memoria originaria che, sebbene intrinseca all’essere umano, viene oscurata o velata nel corso del tempo. Questo “velo” rappresenta simbolicamente l’oblio, le illusioni o le sovrastrutture che nascondono la verità essenziale della nostra natura. Lo svelamento, invece, allude al processo di riscoperta, di ritorno alla luce della consapevolezza originaria di unità con il divino. In molte tradizioni indiane, il velo rappresenta l’ignoranza (avidyā, अविद्या in sanscrito), che separa l’individuo dalla conoscenza autentica di sé e dalla consapevolezza della sua unità con il Brahman, la realtà ultima. Nel Vedānta, ad esempio, si parla di māyā, l’illusione che vela la vera natura di Brahman, la realtà assoluta. Similmente, nel Buddhismo, si fa riferimento al velo dell’illusione creata dalla mente che perpetua la sofferenza (dukkha). Vorrei sottolineare come sia  fondamentale tenere presenti le differenze tra gli approcci delle diverse prospettive spirituali. Sebbene alcuni concetti possano sembrare simili o sovrapponibili, vanno sempre contestualizzati all’interno del loro specifico quadro dottrinale, culturale e filosofico. Ogni tradizione religiosa e spirituale utilizza simboli, metafore e terminologie proprie, radicate in un determinato contesto storico, linguistico e culturale. Ad esempio, il concetto di ignoranza spirituale appare sia nelle tradizioni occidentali che in quelle orientali, ma con sfumature differenti. Di conseguenza, anche se concetti come velo, cecità, ignoranza e risveglio possono sembrare affini in diverse tradizioni, vanno sempre interpretati nel loro contesto originario, senza sovrapporre indistintamente significati appartenenti a sistemi di pensiero differenti.

E per terminare: in italiano, il verbo peccare deriva dal latino pecco, -are, che secondo alcuni studiosi ha origine dalla radice verbale proto-indoeuropea *(PIE) ped-(ko), con il significato di “camminare, inciampare”. Questa etimologia trova riscontro nel sostantivo sanscrito पद (pada) significa “piede, passo”. Questa connessione linguistica suggerisce una visione del peccato come uno scivolamento un inciampo nel cammino della vita, un ostacolo interiore che impedisce il cammino verso la verità e la piena realizzazione dell’essere umano.

La cecità spirituale è chiusura e morte interiore, una condizione di separazione dalla luce della verità e dell’amore. Questo mi richiama la spiegazione che Antonella offre sul concetto di infero, inteso come luogo chiuso e confinato, un’espressione della distanza da Dio. Allo stesso modo, il termine “angoscia” deriva dal latino angere, che significa “soffocare”, e da angustus, che significa “stretto”, evocando un senso di oppressione e limitazione. Cecità spirituale e infero condividono la stessa dinamica: entrambe rappresentano uno stato di prigionia interiore, dove l’anima, si priva della luce e dell’amore come conseguenza delle sue scelte, e si rinchiude in sé stessa.

Matteo 6, 21: ὅπου γάρ ἐστιν ὁ θησαυρός σου, ἐκεῖ ἔσται καὶ ἡ καρδία σου

‘Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore’

Il “tesoro” (ὁ θησαυρός) rappresenta ciò che domina la nostra vita e i nostri pensieri

Dove mettiamo il nostro tesoro (priorità, valori, affetti, desideri), lì sarà anche il nostro cuore (essenza, identità, volontà). In ebraico e nel pensiero biblico, il “cuore” non è solo il centro emotivo, ma anche il centro della volontà, delle decisioni e dell’identità profonda. Questo versetto invita a riflettere su cosa davvero conta nella nostra vita. Ciò che consideriamo più prezioso modella il nostro essere.

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