Studiando il pensiero di Antonella, appare ai miei occhi evidente come la povertà di spirito sia la soglia interiore del Regno.
La beatitudine “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5,3) costituisce una chiave di accesso alla realtà del Regno: è il varco interiore attraverso cui l’eterno si riversa nel tempo. Il sostantivo greco usato da Matteo, ptochoi (πτωχοί), indica letteralmente i “mendicanti”, coloro che sono poveri, qui in modo simbolico. Dunque, la povertà di spirito è svuotamento dell’io, delle sue pretese, delle illusioni e delle brame, per aprirsi al flusso dello Spirito.
Leggendo questa beatitudine alla luce del pensiero di Antonella, diventa chiaro come essa indichi un’esperienza spirituale trasformativa, liberatoria: solo liberando lo spazio interiore da ciò che non è Dio, l’essere umano può divenire figlio nel Figlio, in un processo di filiazione divina che si realizza nell’incontro profondo e personale con il Verbo incarnato. Soglia in continuo divenire, un punto di passaggio tra il tempo e l’eternità, tra la creatura e il Creatore. Trasfigurazione della coscienza ad opera dello Spirito. In questa prospettiva, Maria è l’icona della nuova umanità spirituale: la sua disponibilità radicale, il suo “fiat” (“Avvenga di me secondo la tua parola” – Lc 1,38), rappresenta la piena povertà di spirito, la massima apertura all’azione dello Spirito Santo. In lei, l’incarnazione del Verbo è resa possibile dalla sua totale non-resistenza.
Anche Simone Weil, filosofa e mistica molto ammirata da Antonella, si colloca in questa linea, affermando che solo nel vuoto dell’io si fa spazio al Verbo. L’incarnazione è una realtà spirituale che si rinnova in ogni anima disposta a “non essere nulla” per ricevere tutto. È l’umiltà perfetta, che permette a Dio di nascere nell’umano.
Il mistico tedesco Meister Eckhart esprime con parole folgoranti una verità che attraversa tutta la tradizione contemplativa cristiana: Dio è presente là dove l’anima è vuota di tutto il resto. Per Eckhart, l’anima non può accogliere Dio finché è occupata da altro – dai pensieri, dalle immagini, dai desideri, dalle paure. Solo nel silenzio profondo, nel distacco radicale da tutto ciò che non è l’Essere puro, può avvenire la nascita di Dio nell’anima. Se l’anima vuole che Dio nasca in lei, deve svuotarsi completamente di ciò che non è Dio.
L’incarnazione è una possibilità spirituale sempre attuale. Dio nasce ogni volta che un’anima si fa totalmente ricettiva, nuda, semplice, libera.
Lo svuotamento di sé (abgeschiedenheit, in tedesco medievale: “distacco”) è la condizione del concepimento spirituale: quando l’io cede il passo, l’Amore può manifestarsi. In questo senso, l’incarnazione è un evento interiore, che si compie in ogni coscienza che si apre all’eterno.
Il Regno allora rappresenta qualità di vita nuova. In Cristo si manifesta una qualità di vita radicalmente nuova, che l’umanità può accogliere e incarnare. Ma questa trasformazione non avviene dall’esterno, per imitazione o sforzo morale: si genera dall’interno, quando lo Spirito del Cristo comincia ad abitare, lavorare e trasfigurare la coscienza dell’essere umano. È un’opera silenziosa e nascosta, che fiorisce nella misura in cui l’io si ritira e lo Spirito ha spazio per operare.
La povertà di spirito è il cuore della povertà evangelica.
Quando Gesù dice “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5,3) non sta certamente parlando di una semplice condizione economica o sociale. Sta indicando una disposizione interiore radicale, che è la base di tutta la vita evangelica. Essere poveri in spirito significa rinunciare alla pretesa di possedere sé stessi, di salvarsi con le proprie forze, di affermare un io separato da Dio. È una povertà del cuore, una libertà interiore da ogni attaccamento, da ogni falsa sicurezza, da ogni egoismo spirituale o mondano.
Gesù lo dice chiaramente in un altro passaggio centrale:
“Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”(Mc 8,35).
Qui la “vita” (psykhē in greco) è intesa come la vita dell’io psichico, dell’ego centrato su sé stesso. Per entrare nel Regno, è necessario morire a questa vita egocentrica, perdere ciò che si crede di essere, per ricevere una vita nuova, che è quella di Cristo in noi. Morire al proprio ego, farsi spazio ricettivo dove l’amore e la luce possono prendere dimora.
Questa è la morte al mondo di cui parla Antonella e di cui parlano altri mistici: non una fuga dalla realtà, ma una liberazione dall’illusione del possesso, del potere, dell’autosufficienza. È un cammino di svuotamento interiore che fa spazio allo Spirito Santo.
La povertà evangelica è prima di tutto un atteggiamento spirituale.
“Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).